di Beppe Donadio
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Per conoscerne la storia umana e artistica con qualcosa che non produca suoni (ma anche un libro, indirettamente, può fare musica), si può partire da un volume che si chiama ‘Non per un dio ma nemmeno per gioco’, che del futuro cantautore racconta l’infanzia, la famiglia, quel quarto di secolo di vita che dagli 0 va ai 25 anni, quando le persone quasi sempre scelgono strade, prendono direzioni. Anche “ostinate e contrarie” (limiteremo le citazioni, è una promessa). Dentro quel libro ci sono il Piemonte, gl’incontri di gioventù, le dichiarazioni dei professori, da quello d’italiano che al futuro cantautore rimproverava l’incapacità di scrivere temi organici – e al quale l’alunno un giorno recapiterà ‘Tutti morimmo a stento’, concept album che, in quanto tale, più organico di così non si può – a quello di di religione, «figura che spiega molte scelte di vita, e di vita politica».
Luigi Viva, in quell’opera edita da Feltrinelli uscita nel Duemila, un anno dopo la morte dell’artista, di Fabrizio De André ha raccontato tutto e fino alla fine. Anche dell’amore dell’artista per il jazz, confluito nel 2018 in VIVA#DE ANDRÉ, concerto-racconto-tributo aggiornato e in arrivo venerdì 9 ottobre al PalaCinema, per volere di JazzAscona sotto l’egida della Fondazione Fabrizio De André Onlus (www.biglietteria.ch). L’evento contiene i reading dello scrittore tratti da quella biografia condivisa e corretta in alcune parti dal protagonista, e da un secondo libro intitolato ‘Falegname di parole’ (sempre Feltrinelli), anch’esso revisionato da Fabrizio prima della morte. Un secondo libro del quale l’autore va fiero perché «il più difficile, in un certo senso pericoloso». Difficile «cercare di portare al lettore i suoi dischi con dietro il pensiero di chi li ha creati, e non tramite un lavoro critico. Nel correggere le bozze dei primi cinque album – racconta Viva – Fabrizio mi disse: “Mi sta bene, perché quello che fai è un lavoro oggettivo e non critico, altrimenti sarebbe solo la tua opinione”. E io non mi reputo un critico».
“Per noi era essenzialmente musica da ballo e non musica da imitare. Comunque mi piacevano in particolare Gene Vincent con il suo ‘Be-Bop a Lula’ e Little Richard con ‘Lucille’ e ‘Tutti frutti’, ma anche i vari Carl Perkins, Chuck Berry, Buddy Holly e Jerry Lee Lewis” (Fabrizio De André)
Scrittore, giornalista, appassionato di musica e di jazz, fondatore nel 1974 di una delle prime radio private d’Italia, Luigi Viva è socio fondatore della Fondazione Fabrizio De André Onlus. A lui si deve anche l’ideazione e la direzione del Progetto Conservatori, la realizzazione delle partiture integrali di tutta l’opera del cantautore affidato ai conservatori di Genova, Firenze, Parma, Mantova, Bologna e Verona. E il Comitato scientifico del Centro Studi Fabrizio De André aperto presso il Dipartimento di Scienze storiche e dei Beni culturali dell’Università di Siena non poteva non annoverarlo tra i suoi membri. «VIVA#DE ANDRÉ è un’evoluzione delle cento e passa occasioni pubbliche avute presentando i miei due libri, nelle quali vado a braccio, con ospiti sempre nuovi, musicisti, gente che ha lavorato con lui, leggendaria come Nanni Ricordi, l’inventore del 45 giri in Italia». VIVA#DE ANDRÉ va anche «ad ampliare la conoscenza e l’amore che Fabrizio aveva per il jazz», da quando, giovanissimo, per cinque-sei anni suonò in un gruppo jazz cui si aggiungeva occasionalmente Luigi Tenco al sax alto, «un sax alto d’argento, col quale Luigi, racconta Fabrizio, veniva a suonare ma soltanto per il concerto, senza mai fare le prove». L’amicizia tra i due nascerà più tardi, insieme in un cinema a vedere ‘La battaglia di Algeri’ di Gillo Pontecorvo: «Decisero di collaborarare, di fare qualcosa insieme. Qualcosa che poi non è mai avvenuta».
In VIVA#DE ANDRÉ le canzoni sono state riarrangiate da Luigi Masciari (chitarra, anche direttore musicale), supportato da musicisti d’estrazione diversa, ‘crossover’ come le molte anime sonore di De André. Sul palco del PalaCinema ci saranno Francesco Bearzatti al sax (già con Enrico Rava), Piero Iodice alla batteria, Francesco Poeti al basso a sei corde, Giampiero Locatelli al pianoforte (2° tra i migliori nuovi talenti scelti dal referendum di ‘Musica Jazz). Per questo spettacolo, che ha una veste nuova rispetto ai precedenti, ci sarà anche la cantante Oona Rea, in due brani. «Ci sarà anche la voce di Fabrizio raccolta durante la lavorazione dei libri, altri audio inediti e qualche immagine rara. Lo spettacolo vuole mettere in evidenza l’intellettuale, il pensatore, mostrandone l’impegno sociale, civile e politico della sua opera, mettendo a fuoco argomenti cardine di quello che credo sia il suo pensiero, i passaggi della sua vita». Si parlerà anche della Svizzera: «Era il settembre del ’97, e a Lugano Fabrizio entrò per l’ultima volta in uno studio di registrazione per incidere una nuova versione de ‘La canzone di Marinella’ insieme a Mina». Proprio quella canzone che, nella versione di Mazzini, cambiò la vita al suo autore. Proprio in chiave jazz: «Non a caso, per l’album che stava preparando in quei giorni Fabrizio aveva dato mandato ai suoi musicisti di ascoltare l’opera omnia di Jimmy Giuffre, uno dei suoi jazzisti preferiti, del quale aveva acquistato il suo primo disco nel 1956. Come vede, il jazz con Fabrizio ha molto a che fare».Sul palco del PalaCinema, del jazz italiano, ci sarà una folta rappresentanza sotto il nome di Modern Jazz Group, triade che richiama la prima jazz band di De André e richiama assonanze con il ‘Pat Metheny Group’. O almeno le richiama a noi, sapendo che Viva è anche biografo del grande chitarrista americano: «Sì, ho scritto la biografia di Pat Metheny, uscita in Italia e in Francia, ma i ritorni si possono trovare sempre. Per esempio, nel disco legato a questo progetto, che stiamo completando – e che vede anche la presenza di Michael League, leader degli Snarky Puppy, a Estival Jazz nel 2014 – c’è un polistrumentista che ha suonato per tre anni con Metheny, che è Giulio Carmassi, musicista straordinario che vive da diversi anni in America». E dunque «sì, è un cerchio che si chiude, le mie passioni si sono legate a quello che era l’interesse di Fabrizio. Anche se Fabrizio non è che amasse particolarmente Pat Metheny…».
“Per i cori di ‘Prinçesa’ mi sono infatti ispirato al alcune cose di Sérgio Mendes. Uno dei miei musicisti preferiti rimane Joe Zawinul (…) Finita la corrente free di Ornette Coleman ho ripreso ad ascoltare jazz, mi piacciono Jan Garbarek, Keith Jarrett, Hancock” (Fabrizio De André)
Aveva l’orecchio dappertutto», continua Viva. «Noi amici gli portavamo le cassette, quando ancora c’erano le cassette, e così facevano i suoi musicisti. Se lei pensa che Fabrizio, negli anni ’70, ai tempi del primo concept, dichiarò di essersi ispirato al lato A di un disco dei Moody Blues, citando anche i King Crimson. Ascoltava molta musica come tutti i grandi musicisti solitamente fanno, con l’orecchio aperto a captare le nuove tendenze. È stato per certi versi anche un precursore, fra i primi in Italia a usare il Synclavier, all’epoca di ‘Crêuza de mä’, il più sofisticato sintetizzatore in commercio dentro un disco etnico». Ennesimo atto ostinato e contrario dai tempi in cui la musica italiana inseguiva, dell’America, l’entertainment e lui, al contrario, pescava in Francia: «Sì. C’è questo dire comune che Fabrizio è “un poeta”, che è cosa molto ovvia. Lui era anche un eccellente chitarrista, un grandissimo cantante e, se vuole, anche un grandissimo intellettuale. Ma sin dall’inizio Fabrizio ha compiuto una ricerca musicale parimenti colta a livello di testi. La musica trovadorica all’inizio, poi il rock, la world music, e citando sempre come suo riferimento stilistico George Brassens, al contrario di tanti grandi nomi che i propri punti di riferimento non li citano mai. In un’intervista, proprio per ‘Anime salve’, dice che quel disco è un po’ la summa di tutte le sue esperienze, citando tutte le sue collaborazioni, New Trolls, Pfm, Bentivoglio, Piovani, Bardotti. Fabrizio, da persona generosa qual’era, dava sempre spazio ai collaboratori».
“A Luigi futuro biografo di un grande romanziere. Fabrizio”
Un autografo, nel marzo del 1992, ufficializza un’amicizia nata nel 1975 a Roma. «Sì, ricordo quel giorno. Ricordo Dori, ricordo Piazza Navona, ricordo che insieme a quella che sarebbe diventata mia moglie fui tra le poche persone ad accedere al palco. Non certo i palchi sofisticati di oggi. Rimasi ammirato dopo poche battute dalla bellezza della voce. Dissi a mia moglie: “Questo è ancora più bravo dal vivo che non su disco”. Cenammo insieme dopo il concerto, io ero amico dei New Trolls, che lo accompagnavano. Di lì in avanti, in qualche maniera, ci siamo frequentati. Saltuariamente, perché impegnati entrambi nel tentativo di diventare agricoltori. La gran parte dei nostri discorsi, i primi anni, vertevano solo sull’agricoltura, poi abbiamo cominciato a parlare di filosofia, di anarchia e pochissimo di musica». Quel diciottenne la cui massima aspirazione era “fare un po’ di soldi per comperare una fattoria e andare a vivere in campagna”, come lo ricorda uno dei suoi collaboratori degli esordi, alla fine si è realizzato: «Sì, in Sardegna, quando ci siamo incontrati per la correzione del libro, mi raccontò che per lui la fattoria era un buco nero nel senso di spesa, ma mi diceva che non l’avrebbe mai abbandonata, per la serenità che gli dava lo stare in mezzo alla natura. Con Dori, recuperare i terreni, allestire l’allevamento di vacche da carne, è stato un lavoro straordinario. Era un po’ la sua oasi felice nella quale viveva praticamente sempre, tranne quando doveva preparare i dischi e allora andava a Milano. Non potendo acquistare i terreni in cui andava da bambino, per i quali mi diceva “Non avrebbe senso ritornare in quei posti, ormai lì non c’è più nessuno”, optò per la Sardegna, terra cui fu legatissimo. Legatissimo ai sardi tutti, ai contadini, a Filippo il fattore, personaggi di spessore umano molto denso, e che non a caso stavano vicino a Fabrizio.
“Ci risultava completamente alieno, diverso e nuovo. Tutto ciò produceva sui ragazzi come me un effetto formidabile, potenziato tra l’altro dalla sua totale assenza. Di Fabrizio non si sapeva assolutamente niente. Per anni la sola immagine che ho visto era quella delle copertine dei dischi” (Ivano Fossati)
È stata un scelta forse anche dei discografici. Lui era abbastanza restio a mostrarsi dal vivo. Con gli amici suonava, ma per anni ha avuto una sorta di blocco. Poi, quando ha iniziato a suonare dal vivo, lo abbiamo visto con quali risultati. Io ho visto migliaia e migliaia di concerti, soprattutto di musica inglese e americana, perché non sono proprio un amante della musica italiana, ma sentire un concerto di Fabrizio ogni volta mi provocava lo sbalordimento per il livello, dalla qualità, dal suo modo di cantare, dai musicisti che aveva intorno. È vero quello che dice Fossati, per anni per noi è rimasto un po’ sospeso. Forse si contano due o tre apparizioni negli anni ’60 in televisione. Si è creato un alone di leggenda che comunque si sposava con la sua natura tutt’altro che esibizionista. Natura riservata che potrebbe avere un senso nella dimensione non esattamente internazionale del suo successo (due i tour all’estero, in Germania e in Svizzera), inversamente proporzionale alla dimensione dell’artista di culto: «Ricordo che raccolsi l’elogio di David Byrne, leader dei Talking Heads, via fax. Era ancora il tempo in cui ci si scriveva così», commenta Viva. «Non conosco i motivi di queste ritrosia al suonare all’estero, non si se si trattasse di questioni economiche o dovute alla pigrizia, ma è certo che con le sue band, in America o a Londra, avrebbe fatto figure strepitose, perché malgrado la riservatezza, è stato un grande animale da palcoscenico». E allora, tra la curiosità e l’ossessione, chiediamo anche a Luigi Viva, come già chiesto a Dori Ghezzi, che musica farebbe oggi Fabrizio De André. E Viva risponde: «Farebbe sempre la sua musica». Chiamando in causa il jazz per spiegare il concetto: «Ogni tanto lo tentavo. Un giorno gli dissi “Senti Fabrizio, perché non riarrangi in chiave jazz il tuo repertorio, magari metti su una band con Herbie Hancock, Ron Carter, Al Foster, Wayne Shorter”. Sparavo molto alto. Mi guardò un attimo e mi rispose: “Non è male come idea, ma non sarei il primo a farlo”. Questo perché cercava sempre un tratto di originalità, il suo stile era in evoluzione, non era fermo, non era statico. Dunque non credo avrebbe manifestato la sua presenza con forme nuove di chissà quale genere. Avrebbe seguito strade diverse non difformi da quella che è stata un po’ la sua storia. E sarebbero state storie belle. Anche se non escludo che avrebbe avuto il buonenso di capire quando sarebbe arrivato il momento di chiudere. Mentre mi faceva ascoltare i brani del tour 92-93, facendo considerazioni sulla voce, mi disse. “Quanto vuoi che possa durare? Fino a 59-60 anni”. Lui intendeva la voce, poi purtroppo è successo quello che è successo».
“Se la mia presenza è stata fondamentale, è perché sono riuscito a fare una vera operazione maieutica, cioè sono riuscito a portare alla luce il suo vero valore, cioè la sua parte creativa. Lui non sapeva di averla” (Paolo Villaggio)
Attingiamo un’ultima volta da ‘Non per un dio ma nemmeno per gioco’, per tutte le pagine di spassosa ‘deriva umana’ che fu il rapporto con Paolo Villaggio, prima e dopo ‘Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers’, scritta insieme nel 1962. «Cercai Villaggio – racconta Viva – e mi disse che già aveva parlato di Fabrizio in altre occasioni. Ma io, non amando citare altre fonti, chiesi esplicitamente un’intervista. Entrai in casa sua dandogli del lei e ne uscii che ci davamo del tu. Alla fine della serata, ci ritrovammo piegati sul divano. Me ne raccontò di tutti i colori e io dovetti ‘sfrondare’, perché correvo il rischio di sbilanciare l’intero racconto». A Locarno, Luigi Viva leggerà la sua disanima della borghesia genovese contenuta nel libro. Borghesia sulla quale Villaggio era abbastanza caustico. «Fu un bell’incontro. L’ultima volta che lo vidi fu a Roma, in un piccolo teatro vicino al Ghetto. Faceva il suo monologo e nel momento in cui cominciò a raccontare l’aneddoto del topo (il cantautore ne avrebbe morso uno, si dice, uscito dallo stomaco di un gatto), in sala fui l’unico a ridere in anticipo. Ridevo non per la storia del topo, ma perché ero certo che l’avrebbe raccontata per l’ennesima volta in modo diverso da come me l’aveva raccontata la volta prima. E così fu… (ride, ndr). Aspettando VIVA#DE ANDRÉ, e per concludere, strappiamo un ricordo personale a Luigi Viva. Il più bello, o quello che si può chiedere con meno invadenza: «Fabrizio è stato sempre molto caro con me, molto affettuoso. È stata l’ultima telefonata, un mese e mezzo prima che se ne andasse, quando ho capito dalla voce che stava poco bene. Le ultime parole che mi ha detto sono state: “Abbracciami tua moglie e tuo figlio”. Fabrizio aveva questa capacità d’interessarsi alle tue cose, cosa difficilissima per un artista. Perché si sa, gli artisti sono sempre concentrati su se stessi».