Intervista di : Libero Farnè
Numerose sono state le interviste che ho effettuato negli ultimi decenni: ovviamente a molti jazzisti, dai maestri assoluti ai giovani emergenti, ma anche a danzatori, artisti, attori, compositori di musica contemporanea… Ho ritenuto utile inoltre dedicare una serie di interviste ai direttori artistici di importanti festival jazz, italiani e stranieri.
È questa la prima volta però che mi trovo ad intervistare uno scrittore e critico musicale, per certi versi un collega se non fosse per il fatto che negli ultimi anni il mio interlocutore ha esteso la sua attività anche all’ambito concertistico come organizzatore e performer: mi riferisco al romano Luigi Viva, da me incontrato la prima volta a Bolzano nel 2017. Mi trovo dunque di fronte a un’esperienza per me inedita, a tu per tu con un maturo ricercatore e saggista che ha sviluppato un’invidiabile percorso editoriale, specialistico e prevalentemente focalizzato su due famosi personaggi: Fabrizio De André e Pat Metheny.
Al cantautore genovese Viva ha riservato studi sistematici, giungendo alla pubblicazione di “Non per un dio ma nemmeno per gioco—Vita di Fabrizio De André (UE Feltrinelli, 2000) e parecchi anni dopo, nel 2018 sempre per Feltrinelli, di {em>Falegname di parole—Le canzoni e la musica di Fabrizio De André. Su questo straordinario protagonista del cantautorato italiano, Viva ha poi concepito e coordinato diversi spettacoli dal vivo con il supporto di un gruppo jazz impegnato nell’interpretazione strumentale di canzoni di De André, fino ad approdare nel novembre 2022, comprimari Luigi Masciari e un’ottima formazione jazz, alla pubblicazione del CD Viva De André per la Jando Music / Via Veneto Jazz.
Il chitarrista americano è stato invece oggetto di ripetute ricerche, da Pat Metheny. La biografia, lo stile, gli strumenti edito da Franco Muzzio & C nel 1989, che l’anno seguente ha visto l’edizione francese per la Jazz Magazine Collection, a Pat Metheny—Una chitarra oltre il cielo (Editori Riuniti, 2003), riveduto dieci anni dopo per Stampa Alternativa. Nel 2021 infine, da Arcana Edizioni è stato pubblicato Pat Metheny, Lyle Mays e la storia del Pat Metheny Group. Della poliedrica carriera di Luigi Viva, oltre all’attività giornalistica iniziata alla metà degli anni Settanta collaborando fra le altre testate con Paese Sera, Ciao 2001, Il Tempo, Classic Rock e Classic Jazz, bisogna ricordare almeno che è socio fondatore della Fondazione Fabrizio De André.
All About Jazz: Fabrizio De André per te rappresenta la passione di una vita, che nei decenni hai declinato in libri, spettacoli, CD… Come e quando è nato l’interesse per il cantautore genovese e quanto è stato importante averlo conosciuto personalmente?
Luigi Viva: È una passione antica, nata dal 1975 quando ci conoscemmo per la prima volta a Roma dopo un concerto. Ci risultammo reciprocamente simpatici per la comune passione per l’agricoltura. Oltre ad ammirarlo come artista, mi colpì per la sua straordinaria umanità. Il suo impegno civile e politico, il suo rigore, fecero scattare in me il desiderio di realizzare uno studio approfondito sulla sua vita e sulla sua opera. Determinante fu l’uscita nel 1990 dell’album Le Nuvole, nel quale parlava dell’influenza che il “potere” ha sulla vita di ciascuno di noi. Poco tempo più tardi il 19 febbraio 1992, in casa sua a Milano mi diede il via libera alla realizzazione del mio progetto.
AAJ: In particolare il primo libro Non per un dio ma nemmeno per gioco—Vita di Fabrizio De André (Feltrinelli, 2000) è stato riedito molteplici volte. Possiamo parlare di un vero e proprio long seller!
LV: Si è proprio così. A luglio è stato ristampato per la ventiquattresima volta. È diventato il testo di riferimento per chi vuole conoscere De André.
AAJ: Il successo del primo libro ti ha incentivato a pubblicare, nel 2019 sempre per Feltrinelli, anche il secondo, Falegname di parole. Le canzoni e la musica di Fabrizio De André. Che cosa hanno in comune i due libri e quali invece le differenze di approccio?
LV: Con Fabrizio avevamo concordato che il mio lavoro (circa 800 cartelle) trattasse la vita e lo stile, lasciando all’eventuale editore la scelta se uscire con un unico libro o con due differenti pubblicazioni. Falegname di parole quindi tratta tutta la sua opera, anche attraverso le parole di Fabrizio, che supervisionò cinque album, oltre agli interventi di musicisti e collaboratori che a quei dischi collaborarono. Ovviamente io guido il racconto, evitando però la trattazione critica, e su questo anche lui era d’accordo. Di tutti i libri realizzati è quello del quale vado più orgoglioso.
AAJ: Da ragazzo, nella seconda metà degli anni Cinquanta, De André, come Luigi Tenco, Lucio Dalla ed altri, ha avuto un’esperienza jazzistica. Con chi esattamente e con che risultati? Che peso ha avuto questa esperienza giovanile per la sua futura carriera di cantautore?
LV: Attraverso i miei due libri ho messo in risalto questo aspetto che mi fu dettagliato da Attilio Oliva, all’epoca sax baritono del Modern Jazz Group, nel quale suonavano il leader Mario De Sanctis al piano e sax, Alberto Cameli, sassofono, Carlo Casabona al contrabbasso, Luigi Tenco al sax alto e ovviamente Fabrizio alla chitarra elettrica (una Framus ad oggi ancora smarrita). Il loro era uno dei migliori gruppi jazz della Genova di allora; diversi i concerti effettuati fra il 1956 e il 1960. In quel periodo Fabrizio studiò i chitarristi jazz come Billy Bauer e Barney Kessel, ma aveva un debole per Jim Hall del quale cercò di imitare lo stile utilizzando un plettro in gomma per simulare il suono privo di attacco. Per lui fu un’esperienza fondamentale tant’è che sviluppò un senso del tempo assoluto. Fin dalle sue prime incisioni mostrò quanto fosse stata formativa quella esperienza, mettendo in evidenza una grande sensibilità e padronanza, oltre ad una intonazione praticamente perfetta. Il jazz era un suo grande amore, basti pensare che per l’ultimo album che stava realizzando, I Notturni, aveva incaricato il pianista Mark Harris di lavorare alle musiche ispirandosi al cofanetto definitivo di Jimmy Giuffre, di cui, nel 1956, Fabrizio aveva acquistato il suo primo album jazz.
AAJ: Subito dopo il primo libro, hai cominciato a proporre tuoi spettacoli incentrati su De André. Se non sbaglio il primo è stata una rappresentazione teatrale messa in scena per il Teatro Stabile di Genova nella stagione 2004/2005 in occasione di Genova 2004 Capitale Europea della Cultura. Ce ne puoi parlare?
LV: In verità delle oltre cento presentazioni dei miei libri non ne ricordo una uguale all’altra, il più delle volte con ospiti, poi con immagini, con musica suonata dal vivo. Da lì poco a poco è maturata l’idea dello spettacolo grazie all’esperienza di Pino Petruzzelli, bravissimo attore e regista genovese, che mi propose di scrivere insieme il testo de Il Viaggio di Fabrizio De André. Si trattava di teatro di narrazione con due attori sulla scena senza uso di immagini e musica. Il testo ricalcava la vita di Fabrizio, teatralizzando anche alcune delle sue canzoni. Petruzzelli insieme a Mauro Pirovano ha reso tutta la drammaticità di “Don Raffe’”—che dietro le musiche quasi scanzonate racconta di un secondino che chiede aiuto al boss rinchiuso in carcere. Di fatto è lo Stato che s’inchina alla camorra. Debbo anche aggiungere che proprio Pino Petruzzelli mi spinse a pensare ad un nuovo spettacolo su De André da realizzare in prima persona, sostenendo che il fatto di non essere attore, poteva essere compensato dal mio vissuto emozionale avuto con Fabrizio.
AAJ: Negli ultimi anni infatti ti sei orientato verso performance che propongono un connubio fra tuoi testi biografico-critici sul cantautore e una traduzione jazzistica delle sue canzoni. La prima occasione si è avuta nel luglio 2018 a Bolzano all’interno dell’Alto Adige Sudtirol Jazz Festival, dove la parte della tua narrazione verbale, con testimonianze audio/video inedite, forse ha prevalso sul commento musicale. Come hai reclutato i giovani componenti del Modern Jazz Group?
LV: A Bolzano c’è stata la data zero grazie a Klaus Widmann, anche se loro non si aspettavano l’invasione di gente che poi è venuta. Il La ce l’ha poi dato Carlo Pagnotta, che nel 2019 ha preso lo spettacolo al buio per Umbria Jazz Winter, senza chiedere nulla, fidandosi del sottoscritto. Insieme a Luigi Masciari abbiamo scelto la formazione, puntando su musicisti di valore che fossero in grado di fondere il jazz con linguaggi e contaminazioni differenti, proprio per meglio adattare, rispettandole, musiche diventate dei classici. Ecco spiegata la scelta di Francesco Bearzatti al sax tenore e clarinetto, Giampiero Locatelli al pianoforte, Alfredo Paixao al basso, Pietro Iodice alla batteria, oltre a Luigi Masciari alla chitarra e direzione musicale.
AAJ: Da allora questo spettacolo è stato replicato in contesti prestigiosi. Ci puoi ricordare dove e con che riscontri? In funzione delle diverse occasioni la performance ha subito delle variazioni?
LV: Finora dopo Umbria Jazz Winter ci siamo esibiti circa altre dieci volte: all’Auditorium Feltrinelli di Milano, al Pala Cinema di Locarno per Ascona Jazz, al Blue Note di Milano, all’Auditorium Parco della Musica di Roma, dove si è aggiunto al nostro gruppo David Blamires, ex Pat Metheny Group…, riscuotendo fino ad oggi tutti sold out. La formazione di recente è stata ritoccata con l’ingresso di Alessandro Gwis al piano e tastiere e Francesco Poeti al basso.
AAJ: La tappa più recente del tuo lavoro è il CD Viva De André. Personalmente trovo essenziali, rispettosi e ben riusciti gli arrangiamenti del contitolare Luigi Masciari e particolarmente determinante il contributo di Francesco Bearzatti, che in alcuni brani mi ricorda il Charles Lloyd degli anni Sessanta, ma anche di Alfredo Paixão al basso e di Pietro Iodice alla batteria, oltre al cammeo di Michael League in un brano. Come valuti il risultato?
LV: Ero sicuro del risultato perché conosco la bravura di Luigi Masciari, fior di musicista. Gli ho lasciato carta bianca, dando solo qualche suggerimento. Lui ha lavorato sulle musiche rispettandole, senza stravolgerle. Oltre a Michael League degli Snarky Puppy, devo sottolineare l’apporto determinante del polistrumentista Giulio Carmassi, ex Pat Metheny Unity Group, presente in quattro pezzi. I suoi interventi hanno dato veramente una marcia in più, suonando sax tenore e soprano, tromba, tastiere, handclaps, organo Hammond… Devo comunque dire che sono stati tutti bravissimi e partecipi del progetto. Mi preme di sottolineare il ruolo fondamentale di Masciari sia nella realizzazione del CD, sia per la bravura nel preparare e dirigere la band dal vivo. Tra l’altro in questi giorni Luigi sta terminando il suo nuovo album inciso con il pianista Jason Lindner. Quanto al risultato basti pensare che il CD ha avuto il plauso di Dori Ghezzi, che è stata la prima ad ascoltare le registrazioni e si è tanto complimentata.
AAJ: Questo progetto è già stato presentato in concerto diverse volte. Che spazio hai riservato alla tua parte parlata, che nel disco si riduce a un ricordo di Fabrizio molto essenziale?
LV: Ho preferito lasciar parlare la musica, limitandomi ad un breve contributo, tra l’altro lasciando la prima take del mio parlato. Di fatto lo spettacolo è un reading molto articolato: c’è il mio racconto, ci sono i contributi audio inediti di Fabrizio, la performance del gruppo e qualche immagine molto rara. Non è uno spettacolo statico, c’è l’improvvisazione dei musicisti, ma anche del sottoscritto, che non di rado modifica in corsa la traccia del copione. In qualche modo ricalca il mio modo di scrivere biografie, ricco di interviste, documenti e foto inedite.
AAJ: Fra l’altro il progetto il 26 ottobre aprirà il Jazz and Wine of Peace Festival a Cormons, mentre il primo gennaio chiuderà Umbria Jazz Winter a Orvieto. Ci puoi anticipare quali saranno gli appuntamenti futuri di questo gruppo e le eventuali varianti?
LV: Lo spettacolo si evolve continuamente con elementi di novità e contributi inediti autorizzati da Dori Ghezzi e dalla Fondazione De André Onlus. Cormons è una data alla quale tengo molto, sia per l’importanza del Festival sia perché in Friuli ho parte delle mie radici. Il primo gennaio 2024 saremo invece a Umbria Jazz Winter al Mancinelli di Orvieto, con una Special Edition che vede la presenza di Danilo Rea. Sarà un’edizione pensata appositamente per i trent’anni del Festival, che cade pochi giorni prima del venticinquesimo anniversario dalla scomparsa di Fabrizio. Quel giorno appunto, l’11 gennaio, ci esibiremo a Monopoli.
AAJ: Su De André (ma anche su Pat Metheny, a cui hai dedicato diversi libri) stai pensando, anche a livello embrionale, ad altre tappe di approfondimento o ad altri progetti performativi?
LV: A seguito della morte di Lyle Mays ho praticamente rifatto da capo la biografia di Metheny, dando ancora più spazio e merito alla figura di Lyle; nel 2021 per Arcana Edizioni è quindi uscito Pat Metheny, Lyle Mays e la Storia del Pat Metheny Group. Quanto a Fabrizio sono sempre impegnato fra la promozione dello spettacolo, le presentazioni dei miei libri, l’attività della Fondazione della quale sono uno dei soci fondatori. C’è poi il progetto delle partiture di De André ad opera dei Conservatori, da me ideato, che è ancora da terminare. È un’iniziativa alla quale tengo moltissimo; la realizzazione delle partiture integrali effettuata da giovani studenti, oltre ad avere una valenza divulgativa e didattica, una volta completata e verificata metterebbe a riparo l’opera di De André dalle insidie del tempo. Per questo il catalogo definitivo, oltre che alla Fondazione Fabrizio De André Onlus e al Centro Studi De André presso l’Università di Siena, andrebbe poi depositato presso i Conservatori stessi, fondazioni, biblioteche scelte per questo fine.
Continuo anche a scrivere, anzi sto ritoccando il mio primo romanzo. È ambientato nel mondo della musica e narra la storia di un musicista rock, del suo percorso, delle sue inquietudini con uno sguardo alla spiritualità. Molti spunti nascono dagli incontri che ho avuto con tanti grandi: cito fra gli altri Joe Zawinul, Joni Mitchell, David Crosby, John McLaughlin, che nel mio romanzo appaiono con i loro nomi.